Trattato di Maastricht articolo scritto dal Dott. Luciano Barra Caracciolo. Questo articolo fa parte di una serie di articoli che riguardano i trattati europei firmati dai politici corrotti dalle Banche e dalle lobbies e le loro conseguenze disastrose sui popoli. L’informazione è potere. 

I. Il problema da cui dobbiamo muovere è se il modello economico impostoci da Maastricht sia adatto alla c.d. specializzazione produttiva che ha caratterizzato orgogliosamente lo sviluppo italiano del dopoguerra. La risposta, nei termini suggeriti da Guido Carli nel 1974, non appena ebbe occasione di commentare il primo progetto di “moneta unica” contenuto nel c.d. rapporto Werner del 1971, non può che essere negativa. Parimenti negativa, al tempo, era la risposta di eminenti economisti e responsabili dell’economia nazionale, quali Luigi Spaventa, Caffè, Graziani e lo stesso Sarcinelli. Ora, nonostante i ripensamenti favorevoli al “vincolo esterno” che, per molti, intervennero negli anni ’80-90, i risultati di quelle corrette “profezie”, sono sotto gli occhi di tutti.

Negare questa radice causale della crisi italiana non risponde oggi più ad alcuna realistica convenienza politica.

II. Il secondo interrogativo che propongo è: questo modello di Unione economica e monetaria sarebbe stato consentito dalla Costituzione?
La risposta è di importanza cruciale: a nessun esponente politico che abbia a cuore l’interesse effettivo del proprio Paese, dovrebbe sfuggire l’enorme sostegno che uno sbarramento fondato sulla Costituzione, può fornirgli per la stessa appropriazione del suo ruolo. E intendiamo, per porci sul piano costituzionale, uno sbarramento almeno pari a quello che, ad es., ritiene di poter opporre la Repubblica federale tedesca in base al proprio interesse nazionale sancito dalla prevalenza delle proprie clausole costituzionali fondamentali affermata unilateralmente dal suo parlamento e dalla sua corte costituzionale.
Il ruolo che consente di recuperare la riappropriazione del modello costituzionale – fondabile sul principio di reciprocità e di parità di condizioni stabilita dallo stesso art.11- è quello, per meglio capire:

a) di creatore di indirizzo politico;
b) di titolare di effettivi strumenti di politica economica e fiscale previsti nella stessa Costituzione e dalla stessa considerati funzionali ai principi fondamentali della piena occupazione, intesa come pieno impiego dei fattori della produzione.
Senza questa effettività di poteri, il “lo vuole l’Europa” condanna ormai qualsiasi governo italiano, e qualsiasi livello di governo territoriale (tema quanto mai attuale), entro poco tempo, a politiche di economico-fiscali che, violentando le forze vitali produttive che STRUTTURALMENTE caratterizzano il nostro Paese, giungono rapidamente alla perdita del consenso.

III. Il primo e più agevole test di compatibilità costituzionale che possiamo fare è quello che passa per l’art.11 della Costituzione:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

La vicenda interpretativa che, ad opera della Corte costituzionale, ha subito tale articolo, ne ha chiarito il carattere di clausola permanente della Carta capace di imprimere ai rapporti di diritto internazionale una costante compatibilità coi principi fondamentali, inderogabili e neppure sottoponibili a revisione costituzionale, contenuti, almeno, nei primi 12 articoli della Costituzione.
Questi stessi principi fondamentali, peraltro, si pongono in rapporto necessario, secondo Mortati e l’Assemblea Costituente nella sua maggioranza schiacciante, con le norme della Costituzione economica e con quelle organizzative, ma di “garanzia”, della stessa Costituzione; senza la immediata ed irrinunciabile applicabilità di tali ulteriori previsioni costituzionali, i primi 12 articoli rimarrebbero, dissero gli stessi costituenti, meri principi privi di effettività giuridica.

Solo rammentando la premessa ora svolta si può comprendere l’enunciato della Corte costituzionale in tema di c.d. “Controlimiti” al diritto internazionale di derivazione europea. L’ultimo e significativo pronuziamento su questo tema, sentenza n.238 del 23 ottobre 2014, è nei seguenti termini:

“Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988).”

Se quanto così affermato vale rispetto al diritto internazionale generale di cui all’art.10 Cost, a maggior ragione opera come limite al diritto internazionale “da trattato”, ancorché “europeo”, che è fonte di rango inferiore, nella Costituzione e nel diritto internazionale, rispetto al d.i. “generale”. E la Corte, pur non essendo tenuta a dirlo nella controversia che ha dato luogo a tale pronuncia del 2014, lo ha significativamente ribadito.

L’affermazione è dunque compiuta con una “nettezza” che non lascia equivoci.

IV. Ebbene, il Trattato di Maastricht con tutti i suoi sviluppi successivi non corrisponde a nessuna delle condizioni poste dall’art.11, che è principio fondamentale della Costituzione non assoggettabile a lecita revisione. Per giungere a tale conclusione, peraltro, occorrerebbe che la Corte costituzionale, al di là dell’astratta enunciazione dei controlimiti, che non sono mai giunti ad un’applicazione che effettivamente sbarrasse, in casi concreti l’applicazione delle norme dei trattati europei, prendesse una posizione coerente sui casi, che attualmente non mancano, di leggi finanziarie e di riforma che limitano gravemente diritti fondamentali in applicazione di imposizioni dell’UE.
Primo: mancavano le condizioni di parità. Se si poneva ab initio un limite unico, e per di più INTESO come IMMUTABILE, di deficit-indebitamento pubblico, l’onere di rigido raggiungimento di tale limite, imposto a paesi con diversi oneri passivi per il debito pubblico, sarebbe stato immediatamente e gravemente disparitario.

Basti dire che Germania e Francia, agli albori degli anni ‘90, non superavano un onere degli interessi passivi pari al 3%,; e SUCCESSIVAMENTE NON L’HANNO MAI SUPERATO. Il nostro onere era al tempo circa il quadruplo. E tutt’ora è praticamente doppio. 
Secondo: ogni adesione a un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale può essere SOLO VOLTA AD ASSICURARE LA PACE E LA GIUSTIZIA TRA LE NAZIONI. I Costituenti trattarono esplicitamente questo punto, escludendo per fatti concludenti i trattati economici che non fossero strettamente e oggettivamente funzionali a questo fine.

E difficilmente un trattato economico, di natura inevitabilmente liberoscambista, mira in concreto a questo fine. E ciò vale a maggior ragione per il TTIP.

Ora, l’Unione, al di là di enunciati enfatici e privi di attuabilità secondo le stesse previsioni dei trattati, non è volta a tale fine di pace: frutto di una visione di free-trade, è COME TALE, portata alla enunciata e esasperata COMPETIZIONE COMMERCIALE TRA STATI. E’ questa una competizione, come abbiamo visto, basata sulla espressa teorizzazione dell’economia “sociale” di mercato divenuta parametro sovranazionale (art.3, par.3 del trattato TUE), e dunque, trasposta dalla originaria impostazione della Germania a modello liberoscambista euro-vincolante: cioè, conforme alla radici teoriche di Ricardo e del modello più recente di free-trade, Hecksher-Olhin-Samuelson.

Si tratta di una situazione di “apertura internazionalizzata”, delle economie dei singoli Stati, che realizza il principio di specializzazione dei rispettivi settori produttivi, cioè ma massiccia e coattiva deindustrializzazione di intere filiere divenute non competitive all’interno della pressione selettiva esercitata dalla moneta unica: il principio di specializzazione, secondo il parametro dei “vantaggi comparati”, risulta invariabilmente favorevole, e in modo crescente, ai paesi economicamente più forti.

Inoltre, coordinandosi con la liberalizzazione della circolazione dei capitali e con il vincolo di un cambio fisso ed invariabile, cioè con l’effetto intrinseco della valuta unica, l’impianto liberoscambista del trattato sottrae all’Italia ogni possibilità di correggere la competitività che non sia affidata all’allineamento, a posteriori, sulle tradizionali pratiche tedesche, commercialmente aggressive, Quindi fondate su dumping salariale e sostegno fiscale indiretto al proprio export.

Tuttavia, queste ultime condizioni di correzione, se adottate non in via preventiva (cioè come posizione a priori di mercantilismo, nel caso della Germania), ma a seguito di una crisi da squilibrio delle partite correnti, –
inevitabilmente generata da tale tipo di assetto normativo dei trattati e della moneta unica-, costringono lo Stato inseguitore a politiche fiscali che altro scopo non hanno, come ha chiarito lo stesso Monti, di “ammazzare la domanda interna”.

Cioè, aumentando la pressione fiscale e riducendo la spesa pubblica, si restringono le importazioni, ma anche, inevitabilmente, si provoca un elevato livello di disoccupazione, senza precedenti. La conseguente deflazione non consente neppure di rispettare i parametri fiscali di “rigore” che si legano a tale tipo di correzione obbligata; obbligata, cioè, dalle regole di Maastricht e dal loro inevitabile sviluppo, logico ed economico, concretizzatosi nel fiscal compact e nel recepimento in Costituzione di quella disposizione totalmente “spuria”, rispetto ai principi fondamentali pur affermati dalla Corte costituzionale, che è il pareggio di bilancio.

I risultati anche qui sono sotto gli occhi di tutti: mai lo spirito di cooperazione e di appartenenza comune e solidaristica alla casa europea è stato così basso: non vorrei dover rammentare la vicenda greca e quella più recente del Portogallo. Pace e giustizia all’interno del continente europeo non sono mai state, dal 1945, a un livello così basso.


V. Mi soffermo su questa esasperata conflittualità tra Stati, col grave deterioramento dello spirito cooperativo e della stessa reciproca “fiducia” (seppellita sotto gli sprezzanti giudizi del paese che ha così imposto il modello mercantilista dei trattati); essa è il corollario necessitato di quanto fin dall’origine era sancito nel trattato di Maastricht e costituisce altresì il mezzocon cui si è, – in modo “velato” (anzi, per dirla con le parole di Amato, “illeggibile”), e quindi non comprensibile agli elettorati e persino ai parlamenti esecutori in via di ratifica dei trattati-, ri-affermato il modello neo-liberista di disattivazione delle democrazie economiche europee.

Tra queste, non possiamo nascondercelo, in virtù della sua più avanzata Costituzione, e della precedente e straordinaria dinamicità della sua economia, l’Italia ha costituito il “bersaglio grosso” e, addirittura, preferenziale.

Questo perché, ribadiamo, il trattato, nelle sue norme fondamentali, promuove soltanto un’economia fortemente competitiva, tra Stati, e la stabilità dei prezzi che ne è il corollario tipicamente liberoscambista.

Inoltre il trattato, – con gli artt.123-124 e 125 TFUE, stabilisce il divieto di ogni finanziamento monetario a favore degli Stati, sia proveniente da istituzioni europee, come la BCE, sia proveniente da altri Stati: cioè vieta, come norma inderogabile e caratterizzante l’assetto dell’unione monetaria, proprio quel governo federale di trasferimenti che oggi si indica irrealisticamente come soluzione, dimenticando che la Germania intanto ha aderito al trattato UE in quanto ciò fosse, una volta e per sempre, esplicitamente escluso.

A ulteriore conferma di ciò vi è la stessa “apparente” clausola c.d. di solidarietà ex art.222 TFUE: anch’essa esclude, cioè vieta, espressamente ogni natura solidaristica; e lo fa, senza mezzi termini, relegando entro le disponibilità del
simbolico bilancio dell’Unione, persino gli interventi a favore dei singoli Stati in caso di gravi attentati terroristici e di grandi calamità naturali, (quali sono state i terremoti e le alluvioni che hanno colpito e colpiscono il nostro paese), o in caso di eclatanti emergenze umanitarie (qual è l’attuale problema dei flussi migratori incontrollati e volutamente incontrollabili).

Le risorse solidaristiche mancano programmaticamente nell’Unione: la volontà politica dei singoli Stati di aiutare un altro membro della UE, molto ipotetica e remota, secondo lo stesso art.222, può essere esercitata attraverso intese bilaterali, che, però, gli Stati potevano anche prima, e comunque, concludere anche senza che ciò fosse, in modo puramente enfatico, previsto dal trattato!

Ma, come appunto insegna la crisi greca e il trattamento riservato ai PIGS debitori, non paiono certo sussistere condizioni di disponibilità e cooperazione per far fronte, in modo adeguato e solidaristico, ad ogni tipo di emergenza interna all’Unione (anzi, gli interventi dei singoli Stati per alleviare, in caso di calamità naturale, le difficoltà delle imprese sui territori colpiti e spesso “rasi al suolo”, vengono considerati “aiuti di Stato” e colpiti con obblighi di restituzione a carico degli operatori economici e sanzioni a carico dello Stato che cerca di “ricostruire”…)

E dunque questa esclusione di solidarietà (fiscale e di ogni possibile politica sociale di “soccorso” agli squilibri economici tra diversi membri) tra Stati dell’Unione non può non considerarsi clausola essenziale alla quale, con ogni evidenza, i paesi “più forti” (cioè quelli che partivano da tradizionali e strutturali tassi di inflazione più bassi) hanno subordinato in modo coessenziale la loro adesione:

questo fondamento politico-economico dell’Unione europea ci fornisce non va mai dimenticato:

esso costituisce il primo, realistico e fondamentale dato sui margini di trattativa effettivamente praticabili per cambiare i trattati.
Dunque non la pace e la giustizia sono perseguite dall’UE ma la logica competitiva neo-liberista e liberoscambista, di rafforzamento dei paesi più forti a danno di quelli che, per motivi ancora non chiari, hanno subìto tale contenuto del trattato.

 

Terzo: la Costituzione non ammette CESSIONI di sovranità, e né potrebbe ammetterle qualsiasi Costituzione democratica, perché paventa l’irreversibile pericolo di compromissione del MODERNO RUOLO DELLA SOVRANITA’:


questo consiste ne LA CURA DEI DIRITTI FONDAMENTALI e del benessere DEI SUOI CITTADINI. Perché, sia chiaro, questa è la sostanza che, secondo il moderno costituzionalismo democratico, ha oggi la sovranità. E dunque il sacrificio della sovranità si pone in una diretta equazione con il sacrificio dei diritti fondamentali sanciti dalle stesse Costituzioni.

La Costituzione ammette, o meglio teoricamente “ammetteva”, solo LIMITAZIONI, cioè attenuazioni reversibili e consapevoli DEI PROPRI STRUMENTI DI POLITICA ECONOMICA, inscindibili dal perseguimento dei diritti fondamentali sociali dei cittadini italiani; e purché tali limitazioni fossero permanentemente volte a promuovere l’effettivo benessere dei suoi
cittadini.

L’insieme delle cose finora dette, dovrebbe dunque escludere la legittimità costituzionale di ogni vincolo derivante da trattato economico che NON SIA SOTTOPOSTO A UN TERMINE e non sia volto a rafforzare piuttosto che a restringere i diritti fondamentali dei suoi cittadini, nonché ad eliminare, piuttosto che ad accentuare, le tensioni economiche e politiche tra gli Stati
coinvolti.

Dovendo essere breve, e sperando di poter integrare questa relazione con uno scambio di domande-risposte, arrivo a concretizzare gli effetti del funzionamento dell’UEM caratterizzata dalla confluente combinazione di

A) limiti rigidi e perenni all’indebitamento pubblico;
B) moneta unica implicante – è ovvio- cambi fissi altrettanto immutabili. 

Il secondo aspetto è presto detto: basta confrontare l’andamento dei saldi delle nostre partite correnti della BdP a partire dalla fissazione della parità col marco (com’è noto avvenuta sul livello relativo di cambio del1996: per la Germania un ribaltamento positivo e per l’Italia l’inverso).

Il venire meno della domanda estera, in una progressione distruttiva e manifesta, è evidente. Ed esso comporta un PRIMO EFFETTO di CONTRAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE che costrinse, da subito (fin dall’esigenza post-Maastricht di rispettare i “criteri di convergenza”), l’Italia ad aumentare il carico fiscale e a effettuare massiccie privatizzazioni che
hanno smantellato il settore industriale pubblico, vera e propria nave ammiraglia del nostro manifatturiero, in una rincorsa crescente e senza apparente fine.

Il primo effetto menzionato, quello relativo alla rigidità fiscale del trattato (su deficit e debito pubblico) è ancor più evidente: se taglio il deficit pubblico, inevitabilmente, taglio per via impositiva la formazione del risparmio e tagliando la spesa pubblica riduco inevitabilmente il reddito privato, e lo stesso PIL. Specie se l’onere passivo degli interessi sul debito è superiore al tetto di deficit consentitomi (a differenza che per gli altri paesi “concorrenti”).

Ciò, nel punire la formazione del risparmio nazionale, contrae, come attesta l’eloquente andamento degli investimenti lordi e netti registrati in Italia a partire dalle manovre finanziarie succedutesi dal 1992, l’effettiva possibilità di investimenti; di conseguenza, va detto, si è ancor più costretti ad inasprire la pressione fiscale per l’ulteriore venire minor crescita, o addirittura per il suo saldo negativo, con la costante minor base imponibile derivante dall’output gap, o dalla recessione, generati dai saldi primari.


QUESTO PUNTO MERITA UN APPROFONDIMENTO.

Quello che manca, nell’intera classe dirigente italiana, è semmai il grado di consapevolezza diffusa che renda di nuovo condivisa e operante la soluzione qui suggerita fin dall’inizio di questo intervento: cioè il recupero del MODELLO COSTITUZIONALE DI DEMOCRAZIA PARTECIPATA E DEL LAVORO, in tutte le sue forme e strumenti costituzionalmente
sanciti (cosa particolarmente chiara nell’intento dell’Assemblea costituente).

Per raggiungere questo obiettivo si dovrebbe costruire un progressivo canale di comunicazione, criticamente argomentato, e proporre per mesi ed anni, idee e spiegazioni documentate: ma arriveremmo in tempo, prima che sia troppo tardi, di fronte alla ostinata negazione dell’attuale crisi da domanda (attestata dalla persistente deflazione e alta disoccupazione)?


No: e sappiamo perché. Il sistema mediatico italiano, con una compattezza probabilmente senza pari in Europa, continua e difendere l’indifendibile, contro ogni evidenza e ripetendo gli stessi slogan da 30 anni, senza preoccuparsi più nemmeno di aggiornarli.

Uno spettacolo inquietante di collettiva cecità: ma se da 30 anni gli stessi “normotipi” di governanti propongono come “nuove” sempre le stesse ricette, lamentando semmai che QUELLI DI PRIMA non abbiano avuto il coraggio di realizzarle nella misura necessaria (cioè non distruggendo abbastanza la domanda interna e il livello di occupazione), non si scorge l’incongruenza di
tutto ciò?

Se Amato, Padoa Schioppa, Monti, entrano nelle stanze del potere, ciascuno nel momento della sua bella rispettiva “crisi” e dicono che la medicina è sempre quella e solo che ne occorrevano dosaggi più elevati, non viene in mente ad alcun malato, o meglio a tutti i “malati-colpevolizzati” di alzarsi dal letto e fuggire?

Eppure non è così, in Italia: piuttosto, si assiste al giochino di prestigio dell’attacco alla pressione fiscale ipotizzando di attenuarla con la riduzione della spesa pubblica.

Cioè i malati, non consapevoli che la medicina – riduzione e “privatizzazione” dello Stato-, ha degli effetti collaterali piuttosto pesanti- cioè, la pressione fiscale, originata dal divorzio e dai parametri di Maastricht-, si gettano a testa bassa contro questi effetti, ma chiedendo a gran voce un’ulteriore aggiuntiva intossicazione dello stesso farmaco letale.

Un giochetto ben visibile, ma occultato con questo metodo:

– il PIL ristagna o registriamo recessione (da 20 anni a seguito di Maastricht e poi con le politiche BCE-fiscal compact);

– la spesa cresce sempre meno rispetto al PIL; pur avendosi una sua naturale tendenza a rimanere nella sua dinamica strutturale di crescita leggermente superiore a quella del PIL, per ragioni demografiche e tecnologico-ambientali,
COME IN TUTTI I PAESI CIVILI DEL MONDO;

– il volume assoluto della spesa pubblica, però, nonostante la detta tendenza (tipica di tutti gli ordinamenti del mondo civile), assume, un valore decrescente (cioè non più soggetto al suo incremento strutturale naturale). Ed infatti, la spesa pubblica primaria “reale”, al netto dell’inflazione, secondo la banca dati europea AMECO, anche in rapporto al PIL, diminuisce, pur
essendo stato il PIL in flessione ancora più marcata. E questo nonostante la crescita degli oneri previdenziali e assistenziali: parliamo degli Stabilizzatori automatici che soccorrono in caso di crisi economica e occupazionale, dovuti all’esplosione della disoccupazione e quindi alle varie forme di “ammortizzatori sociali”: che saranno, anzi sono già, il prossimo obiettivo dei tagli nel medio periodo!;

il livello dei servizi erogati ai cittadini, necessariamente si abbassa, in tutti i livelli territoriali: la colpa viene data in termini morali allo Stato, come ente solidaristico nazionale, ed alle sue articolazioni territoriali. Ma non c’è virtù gestionale che tenga se, al di là dei balletti contingenti delle cifre, si deve realizzare il programma ordoliberista dei trattati, che porta allo Stato
minimo, al pareggio di bilancio, allo Stato come una famiglia: un programma che lascia alla flessibilizzazione e alla precarizzazione del lavoro, e alla deflazione salariale, ogni possibile soluzione alle crisi economiche;

– seguendo questa traiettoria, si invoca poi ulteriore riduzione dell’intervento pubblico; da cui ulteriore flessione del PIL, ancora calo del gettito fiscale, e ulteriore rimprovero di incidenza eccessiva della spesa!

Si dimentica (“astutamente”) che non solo la rincorsa alla diminuzione della spesa pubblica si riflette sul livello dei servizi, ma che è la causa più incidente della flessione del PIL, dato che il moltiplicatore fiscale della spesa, per la nota legge di Haveelmo, è il doppio di quello della imposizione fiscale (in pratica se finanzio 100 di sgravi fiscali con 100 di taglio della spesa il PIL diminuirà di 100).

Abbiamo detto di come la disoccupazione renda incomprimibile, se non crescente, la spesa pubblica assistenziale, che è poi un sostegno disperato della domanda e, fiscalmente, un rimedio tutto in salita alla contrazione della base imponibile.

Se anche tale spesa assistenziale diminuisse, perché si realizza un’illusoria diminuzione statistica della disoccupazione, conteggiando i sotto-occupati (atipici, lavoratori saltuari, part-time involontari e cassaintegrati), spesso con redditi inferiori ad un dignitosa sussistenza, ne risulta comunque il crescente fenomeno dei working-poors. Ed ancora, si tradiscono le impellenti esigenze di correzione dell’andamento demografico della popolazione italiana e di risanamento di un territorio abbandonato dall’intervento pubblico essenziale (cioè di tutela minima, di “sopravvivenza”, del territorio).

Ma riducendo drammaticamente le funzioni strutturali dell’intervento pubblico, com’è evidente in Italia, ciò va a discapito dell’intervento anticiclico a sostegno dell’economia reale (ormai impossibile per le esigenze di raggiungimento del pareggio di bilancio). E questo a detrimento degli investimenti pubblici, in programmatica diminuzione, e dello stesso rapporto tra intervento pubblico e sistema diffuso delle piccole e medie imprese.

Un incubo propagandistico (€urotrainato, ma realizzato con entusiasmo dai nostri governi), che partendo da una crisi di domanda diviene distruttivo dell’offerta e, in definitiva, della stessa società italiana.

Oggi, poi, dobbiamo prendere atto dell’insostenibilità di medio-lungo periodo di tale situazione proprio sugli indispensabili investimenti privati – investimenti che il settore privato può autonomamente generare grazie alla formazione del risparmio PRIVATO consentito dal deficit pubblico. Da ciò la DEINDUSTRIALIZZAZIONE, crescente e ormai irreversibile Fornisco un solo dato:

“…nell’ultimo decennio oltre ventisettemila aziende italiane hanno delocalizzato la produzione all’estero, creando oltre 1.5 milioni di posti di lavoro esteri e lasciando allo Stato una fattura da 15 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali… soltanto il 10% di queste aziende sono andate oltre i confini europei (soprattutto in Asia) mentre la restante parte sono rimaste in Europa, in Austria, Svizzera, Germania, e soprattutto nei paesi balcanici”.

Ma va aggiunto un altro aspetto fondamentale.

QUAND’ANCHE, attraverso questa compressione della domanda interna e quindi dell’inflazione, si REALIZZASSE LA SPERATA CRESCITA DELL’EXPORT, ciò non risulta INDIFFERENTE su CHI REALIZZA IL RISPARMIO derivante da questo indirizzo economico imposto dall’UEM: una crescita esclusivamente export-led che, tra l’altro, nessuno ha MAI realizzato
con una VALUTA SOPRAVVALUTATA COME L’EURO, neppure la Germania (infatti per essa l’euro è valuta SOTTOVALUTATA).

Ma veniamo ai riflessi costituzionali dell’appartenenza all’area euro.  

Essendo fuori dal sistema dei vincoli imposti dalla moneta unica, lo Stato italiano avrebbe potuto attivare normali politiche anticliche, per il caso di stagnazione e recessione, fissando il deficit-spesa pubblica in misura tale da sostenere effettivamente la domanda (come hanno fatto tutti i paesi dell’Unione non appartenenti all’area euro).

Tra l’altro, tale sostegno in Italia è cessato praticamente dal dopo-Maastricht attraverso una spettacolare serie di SALDI PRIMARI, senza pari nella storia dell’economia moderna. In tal caso, disponendo della flessibilità del cambio e della sovranità fiscale, il risparmio avrebbe potuto corrispondere a tendenziale piena occupazione (cioè si sarebbe tradotto quasi integralmente in investimenti).

E questa è, o sarebbe, la volontà esplicita degli artt.1, 3, secondo comma, e 4 della Costituzione. Richiamiamo l’enunciato fondamentale dell’art.4:

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

La norma si riferisce, sia chiaro, ad ogni tipo di lavoro che sia espressione prevalente dell’attività personale del cittadino. Mentre il “promuovere le condizioni” era stato chiaramente inteso dai Costituenti come utilizzazione degli strumenti di politica economico-fiscale previsti dagli artt.35-47 Cost., cioè da quella Costituzione economica che risulta svuotata e paralizzata dall’irrompere dei trattati europei e del vincolo esterno.

La Costituzione vuole anche, con LO STRETTAMENTE connesso art.47 Cost., che il RISPARMIO SIA DIFFUSO, cioè non appostato solo nei profitti finanziari e di un numero limitato di esportatori.

E ciò esplicitamente per raggiungere degli obiettivi che la Costituzione considera irrinunciabili e connessi ai principi fondamentalissimi appena richiamati: favorire l’accesso di ogni cittadino alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e all’investimento azionario “nei grandi complessi produttivi del paese”; e la Costituzione vuole anche il risparmio sia volto a favorire la tutela e lo sviluppo dell’impresa artigiana (art.45, comma 2, Cost.) cioè delle PMI correttamente intese.

Se dunque AZZERO O RIDUCO IL DEFICIT secondo un TETTO IMMUTABILE DETERMINATO DA UN TRATTATO, il possibile risparmio sarà, nella migliore delle ipotesi, concentrato nelle imprese esportatrici – ammesso che la Nazione riesca a mantenerne la proprietà- e sarà NULLO O NEGATIVO PER TUTTO IL RESTO DELLA POPOLAZIONE ITALIANA.

Seguendo dunque la politica dettata dall’adesione all’euro, la Costituzione viene integralmente sovvertita (come appunto evidenziò Guido Carli):

non solo si abbandona irreversibilmente la piena occupazione e la tutela dei redditi, ma si avrà, – e infatti si è avuta-, una drastica riduzione dell’accesso alla proprietà dell’abitazione, con crisi del settore edilizio, una riduzione della capacità di sopravvivenza delle imprese artigiane, con progressiva distruzione del tessuto delle PMI, e un drammatico diffondersi delle insolvenze, cioè delle “sofferenze” che poi innescano il credit crunch-.

Tutto questo è oggi sotto i vostri occhi: e la Costituzione non lo permette. O non lo “permetterebbe”.

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